venerdì 15 dicembre 2017

Scappo di casa e mi perdo nel sahara - le piste

Fino a qualche mese fa ero convinta che nel mondo abbiamo tutti un posto geograficamente rimandabile alla nostra posizione attuale in un punto determinato della sfera terrestre.
Cioè: se io in questo momento scrivo da casa mia, so che sono in questa via, a Roma, che si trova in Italia, in un pezzo di terra che più o meno ha una forma che riesco a ricordare o a ricondurre ad uno stivale.
E invece non ci sono mai certezze.
Il Sahara è quel deserto, infinito, del quale una piccola striscia passa al confine tra Marocco ed Algeria, capire esattamente quale sia il confine è, secondo me, molto difficile.

Se confrontate google maps o qualsivoglia strumento di mappatura con una carta geografica aggiornata vi accorgerete che una dice una cosa e l'altra completamente l'opposto.
Capire in che parte del mondo mi trovo a volte è importante, sopratutto se si tratta di frontiere tra paesi non proprio amici. Il giorno in cui dopo le piste sono arrivata a Zagora ho letto un giornale dove era scritto che nel Sahara occidentale, poco sopra la Muritania erano esplose delle mine antiuomo: il deserto è terra di nessuno da sempre, ci sono deserti inabitati e ci sono deserti che oltre i pericoli naturali riservano sorprese umane poco piacevoli.




L'altro incontro che ho fatto a Merzouga è stato con Omar.
Avevo deciso che me ne sarei stata tutto il giorno seduta a non fare niente perchè sentivo la necessità di recuperare, perchè l'indomani sarebbero state piste.
Me ne stavo seduta a bere un tè in attesa che la giornata passasse rapida, ma molto preoccupata proprio perchè se stai seduto a non far niente la giornata non passa per niente in modo veloce. Mi guardavo intorno irrequieta in attesa che qualcuno o qualcosa cambiasse in destino di quella mattina e in questo paese non è per niente difficile trovare qualcuno che lo faccia.
Omar è alto due metri, scuro come la pece, con una voce molto simpatica e ha tutti i denti neri, come del resto quasi tutti in quella parte del Marocco, mi hanno spiegato che è l'acqua troppo calcarea.
E' da qualche minuto che ci spiamo e alla fine non ricordo bene chi di noi due comincia ad attaccare bottone.

Vi dicevo delle difficoltà incontrate per filmare o fotografare in generale, loro sono molto restii alle riprese ed è anche giusto che sia così.
Da 12 anni passo per il centro di Roma, ogni mattina: colosseo, fori imperiali, piazza venezia, largo argentina etc... che siano le 7 del mattino o le 20 di sera c'è sempre un gruppo di giapponesi che scatta non una ma 17 foto in contemporanea intercettando la traiettoria tra la strada dove passo e il monumento che c'è di fronte; quindi facendo un calcolo veloce ed approssimativo esistono 12x365 = 4380 foto di me assonnata, scazzata, felice, depressa, sorridente, scapellata, esaurita o rilassata.
A volte capendo l'istante esatto in cui il dito applica la giusta pressione per scattare riesco anche a mettermi in posa con una smorfia, giusto per cercare di rendere diverso quel momento e perchè penso, anche se i giapponesi sono quasi privi di senso dell'humor, di fargli fare due risate quando tornano a casa e rivedono le foto, o quello, o si incazzano perchè gliel'ho in qualche modo rovinata per sempre (perchè quando tornano?), in ogni caso sarà un foto diversa.
Ma io vivo in una società occidentalizzata, dove anche il colosseo è messo in vendita ogni giorno, dove tutto è una macchina che deve girare alla perfezione in modo che nessuno si faccia male e che tutti vivano un'esperienza unica e indimenticabile, perchè tornino a casa con le loro foto e ricordino di questa parte del mondo le vecchie rovine romane e un buon piatto di pasta servito al tavolo dell'osteria.

Adesso mi trovo in una parte del mondo invece dove le strade non sono illuminate e la mattina passando in mezzo ai villaggi incontro dei teli bianchi e sotto questi dei corpi privi di vita di donne, uomini, a volte bambini che attraversando la strada al buio sono stati investiti, ricordando ancora una volta che il valore di una vita non è uguale in tutto il mondo.
Qua molti oltre a non avere un'età anagrafica, non hanno mai visto una macchina fotografica, non hanno idea nemmeno di dove si trovano esattamente collocati, è giusto che mi guardino schifati come faccio io con i giapponesi davanti l'altare della patria, è giusto che in molti casi non ho nemmeno tentato di uscire fuori il mio curioso oggetto per spiarli.

E' per questo che di necessità si fa virtù: allora mi improvviso inviata TV per un noto canale italiano, anche se a loro poco importa quale sia; sto raccogliendo materiale per un documentario sui luoghi del deserto, spacciando il mio fedelissimo tesserino universitario scaduto 6 anni fa (ma che mi permette ancora grazie alla distrazione di molti controllori di accedere gratis alle mostre) per un pass TV. Io non so bene come ho fatto, ma in qualche modo ha funzionato.

Omar sembra entusiasta dell'idea e decide di farmi fare un giro sul suo "ciao" molto anni 90 per portarmi a visitare una serie di villaggi nei quali non sarei passata in bici.
Non sono una che fa l'autostop, anche se mi piacerebbe farlo un giorno, per questo sono abbastanza intimorita dalla proposta, ma ci metto un millesimo di secondo a dargli una risposta affermativa, in fondo erano più di 30 minuti che rispondevo a domande su un lavoro che non ho mai fatto.

Così passiamo per una diga costruita decenni fa dove non passa nessun fiume, questo fiume è morto e io ho una vaga idea del perchè, ricordando le bottiglie di plastica NEslè che mi proto dietro; passiamo per dei villaggi diroccati che si confondono con la sabbia intorno perchè hanno lo stesso colore e probabilmente perchè siamo in tarda mattinata nessuno ha il coraggio di uscire fuori, quindi sembrano deserti, o forse lo sono realmente; passiamo per un villaggio dove si suona, perchè la gente che nasce li fa questo di mestiere e si esercita tutta la vita per partecipare a un prestigioso festival di musica indigena che si tiene a Merzouga una volta all'anno (si vocifera che anche Henrix, decise di visitare questi luoghi per contaminare la sua musica); passiamo per tanti luoghi che a me sembrano tutti uguali, ma ognuno di essi ha una storia diversa e sono felice di aver incontrato Omar anche perchè lui è uno che il deserto lo conosce e sa esattamente quello che sto per fare.
Andiamo a casa sua perchè ha deciso di ospitarmi.
Non mi chiede il motivo del perchè l'indomani cambierò direzione per prendere le piste, mi guarda e basta, con la consapevolezza di un uomo che è stato forgiato dal deserto e questo me lo dice la sua pelle, completamente rovinata dal sole.
Mi dice che uno dei suoi migliori amici, quello che lo ha aiutato a costruire la casa, è spagnolo e ogni tanto gli procura dei motociclisti per delle escursioni lungo la Abrid n Ighrem, ovvero la pista che collega Merzouga a Zagora, è molto serio, ma allo stesso tempo ride e mi dice che se proprio deve morire un giorno lo farà li in mezzo perchè c'è un silenzio bellissimo (non che a Merzouga ci sia alcun rumore molesto, ma forse c'è ancora troppa gente per i suoi gusti).
Dopo cena ci sediamo su un tappeto in terrazza, da qua si vedono i profili delle case, la più alta sarà sei metri, sopra ancora la luna che illumina bene tutto quanto; mi illustra dettagliatamente i posti dove in caso di necessità posso trovare acqua, mi spiega che non dovrei incontrare anima viva, poi mi che quello che sto per fare è molto difficile, per via del vento, della sabbia, del caldo, della strada che molto probabilmente perderà la sua direzione e io con essa, ma lo tranquillizzo dicendogli che non è la prima volta che faccio questa cosa, che io però non sono come lui, non voglio morire nel deserto; ridiamo tutti e due, in modo nervoso, poi mi chiede se può abbracciarmi.

E pista fu!


Probabilmente nel mondo ci sono luoghi che rimangono ancora oggi inesplorati, forse altri ancora non lo saranno mai, ma io ho sempre desiderato, come ogni bambino degli anni '80, di fare l'esploratrice e con il 99,9% delle probabilità arrivata a questo punto della mia vita non la farò mai, però ho deciso di fare la cosa che più si avvicina a questa (diciamolo pure: perversa) fantasia.

Quando si varca la soglia dei deserti una forte sensazione di pericolo, mista a paura, adrenalina, vuoto esistenziale, fa girare vertiginosamente la testa, noi non ci abitueremo mai al fatto che basta niente per smettere di esistere, e invece in questi luoghi la sensazione è molto forte e prepotente, ti sbatte in faccia una realtà che non siamo abituati nemmeno ad immaginare.
Di questi luoghi una delle cose che mi affascina è la consapevolezza che di tanti milioni di esseri umani che vivono nel mondo, una percentuale bassissima, quasi inesistente vedrà mai quello che vedo io in quel momento, o sentirà la sensazione di mancanza di aria in uno spazio così grande. All'opposto di tutto questo c'è il colosseo, che in quel momento, per assurdo, nonostante sia la cosa che vedo tutte le mattine, non si trova in nessun angolo del mio cervello.
Ancora più forte è la consapevolezza che se arrivata a metà strada dovessi in qualche modo accorgermi che non è stata una buona idea, tornare indietro sarebbe comunque la stessa cosa che proseguire e mi accorgo che in quel momento non mi importa più niente di aver litigato con una persona, di essere a un punto morto col lavoro, di non poter mai fare un progetto a lungo termine, di avere una vita precaria, perchè in quel preciso momento tutto quello che è la mia vita, nella norma, è lontana da me esattamente quanto la strada asfaltata che se non raggiungo è comunque inutile, ed è così superflua che me la dimentico, non sono più io, lì, in quel momento non possono esistere indecisioni.
Questo è il deserto, a molti potrebbe sembrare polvere e nient'altro, per me è semplicemente Alienante.

Ovviamente mi perdo, è un classico, e mi perdo perchè la pista al secondo giorno di cammino è completamente insabbiata.
Se mi fossi persa nel 1999 a Pechino, quando non esistevano nè maps, nè translate, avrei cercato di guardare i nomi/idiomi (se esistono) delle vie e confrontarli col cartaceo; ecco nei deserti funziona più o meno così, solo che i nomi delle vie sono le posizioni del sole e della luna e l'indirizzo finale è un villaggio che probabilmente è solo un nome nella mappa ma che in quel momento rappresenta un biglietto della lotteria sul quale si puntano tutti i risparmi di una vita, e in qualche modo funziona sempre.
Curioso è a questo punto il fatto che io non ho assolutamente senso dell'orientamento, tanto che dopo 12 anni riesco ancora a perdermi a Trastevere, ma in queste situazioni escono fuori tante abilità che pensiamo di non avere, forse si chiama attaccamento alla vita o non so che altro.
Fezzou è il mio biglietto della lotteria, ed è vincente: ho vinto un giorno in più in questo mondo, che può piacere o fare schifo, ma che rimane l'unica certezza fino a questo momento.
Fezzou non è abitato, nel senso comune della parola. Ci sono delle tende e dentro le tende vivono delle persone.





Che ve lo dico a fare ...




Riesco a cenare e a dormire con questi stranissimi personaggi usciti da un romanzo di Salgari, loro parlano solo in berbero e la stanchezza è troppa, non c'è comunicazione, ma c'è comunque tutta l'ospitalità di sempre.
Non ho mai smesso di girare con un coltello in tasta, nè nei viaggi precedenti, nè in questo e non capisco tutt'oggi se la mia è una paura giustificata e faccio bene o se ho ancora molto da imparare, ma ogni azione alla fine è la conseguenza di un'altra più o meno grave e cambia poi tutto il resto.

La mattina mi sveglio decisa a barattare un pezzo di pane per soldi o vestiti che non utilizzo.
E' molto presto, ma sono sicura che le donne sono già indaffarate a cucinare.
Il sole si è alzato da poco e un gruppo di ragazzini, tre, di massimo 14 anni, mi guarda qualche metro più in fondo. La sensazione che provo non mi piace, perchè mi guardano con occhi strani, uno di loro ridacchia, ma è un sorriso poco innocente. Non so come comportarmi.
Alla fine quello che sembra il "capetto" si stacca dal gruppo e mi affianca poggiando una mano sulla mia spalla sinistra. E' questione di istanti, gli sorrido perchè non so cos'altro fare, e in un attimo la sua mano sul mio seno che stringe come se avesse un tentacolo al posto del palmo, si posiziona dietro di me e stringe più forte; comincio a urlare contro di lui, non so in che lingua e non so cosa, credo italiano, e tento inutilmente di tirargli dei calci da dietro, ma nulla, non molla la presa. Non capisco dove vuole arrivare, anzi, non voglio nemmeno saperlo. Non so esattamente quanto tempo passa, credo pochissimo, dal suo gesto per me irrispettoso, al mio, brutale, avventato, forse poco pensato. Il coltello che uso per tagliare la verdura, la frutta, la carne, che uso per cucinare quando mi accampo all'aperto, adesso ha un nuovo utilizzo: la difesa. Con un gesto deciso appoggio la lama sul dorso della sua mano, lui non lo sa, ma sto per farlo e non ci penso un attimo ma faccio scattare il coltello, in modo parecchio deciso, e questo disegna un filo sulla sua carne, dal quale comincia ad uscire del liquido rosso, siamo tutti fragili e io non volevo, ma non conosco le sue intenzioni ed è una sensazione stranissima. Il mio corpo non mi ha dato tempo di pensare.
Si stacca, incredulo, realizza in pochi attimi che sul dorso della sua mano adesso c'è un segno profondo, il ragazzino con lo sguardo vissuto, da duro, sicuro delle sue azioni, in un attimo è diventato di cristallo, si è spezzato, comincia a piangere. 
Giusto pochi secondi e le nostre vite sono cambiate per sempre

Io non mi sento in colpa, mi sento sporca; le sensazioni di lui invece non le conosco, immagino che la realtà si sia schiantata contro in maniera atroce, come se avesse preso una boccata di aria ghiacciata all'improvviso, non riesce nemmeno a gridare, continua a guardare la mano e a tenere stretto il polso con l'altra. La sua espressione da ghigno malizioso, anche un pò ebete, adesso si è trasformata in paura, non una paura forte, ma più un non capire cosa stia succedendo. Non so che cosa teme di più in quel momento, se un futuro immediato che non conosce o il giudizio di qualcuno che può fargli ancora più male di me, oltre il fisico, ma la sua attenzione non è più rivolta al mio corpo, sono sicura che a spaventarlo è stato quello che non poteva aspettarsi e allo stesso modo anche io sono spaventata, non so cosa succederà adesso che tutti sanno, tra quelle tende.
Una donna, coperta integralmente, vedo solo i suoi occhi, chiusi dentro una fessura di tela, corre verso di noi. Per tutto il tempo sono rimasta immobile, ma appena la vedo i miei muscoli si sciolgono, il cervello riprende a girare e mi guardo intorno, la bici che avevo lasciato cadere per prendere il coltello adesso potrebbe servire per scappare, dove non so, sono in mezzo alla sabbia, sarebbe solo un oggetto che mi rallenta. Lei è comunque più veloce dei miei pensieri. Con una mano afferra il braccio del ragazzino, con l'altra gli tira uno schiaffo, un schiaffo che lo fa cadere a terra. Io continuo a non realizzare cosa sta succedendo, penso solo che non conosco questa gente, che non parlo la loro lingua, che non so come spiegare l'accaduto e non riesco nemmeno a immaginare se il comportamento di quel "piccolo uomo" sia nella norma o sia solo frutto di qualche strana idiozia passata nel cervello in modo frammentario e che lui non ha mai pensato di ordinare in modo logico. Il ragazzino si rialza e scappa via, questa volta oltre le lacrime un lamento. La donna mi viene incontro e io rimango ancora ferma, posso solo immaginare i miei occhi, forse non ho mai avuto quello sguardo, lei si inginocchia, si inginocchia e senza mai toccarmi vomita un fiume di parole. Allora capisco, capisco che mi sta chiedendo scusa al posto di quello che secondo me dovrebbe essere suo figlio, fa qualcosa che non dovrebbe fare lei, ma io non riuscirò mai a spiegarli quello che adesso vorrei come conclusione di questo episodio, unico ed isolato.
Non parlo con nessuno di quanto è successo, anzi il fatto che il cellulare non prenda in qualche modo mi fa passare di mente una probabile comunicazione con qualcuno che conosce la mia lingua, che io comunque non voglio, non prima di aver cercato di capire cosa è successo.
Stupidamente l'istinto mi dice di controllare i miei vestiti, come se fossero complici di quanto si era appena svolto: indossavo una camicia a maniche lunghe, una jeans nero fino alle caviglie e una maglietta a coprire il viso per non far passare la sabbia, le uniche parti scoperte le mani. Mi rendo conto di quanto sono ridicola a pensare che sia stato il mio abbigliamento la causa di quanto accaduto e tento di giustificare il ragazzino. Però i mille "perchè" mi ronzano in testa, eppure oramai ho visto abbastanza dinamiche familiari da capire che la donna è l'immagine al centro, la regista della famiglia, quella a cui tutto fa capo, quella che genera e quella che cresce, e allora perchè?

Qualche giorno dopo quello che penso è che è stato uno stupido caso, che probabilmente non aveva mai visto una persona diversa da lui, che non appartiene a quei luoghi, che non ha nome e che non tornerà mai più; probabilmente ha pensato a me come ad un'entità anonima, senza famiglia; probabilmente ha pensato che quella bravata un giorno poteva essere raccontata e che lui potesse distinguersi da tutti gli altri; probabilmente stava maturando l'idea già dalla sera prima quando mi aveva vista mangiare assieme agli altri in tenda; probabilmente da solo non lo avrebbe mai fatto, probabilmente il gruppo ha fatto la sua parte; probabilmente anche senza coltello sarebbe finita allo stesso modo; probabilmente sono le stesse dinamiche che accadono anche qui, da dove scrivo adesso, ma che le circostanze hanno reso tutto più istintivo, primitivo; probabilmente sono tantissime cose assieme, delle quali non mi rendo conto nemmeno io, ma la sensazione che è rimasta è stata di aridità totale, per tutto il giorno senza dire una parola cercando solamente di capire dove avevo sbagliato, anche se io non ho sbagliato.

I giorni a seguire dopo le piste, dove non ho avuto modo di fare ulteriori incontri, alla vista di un gruppo di ragazzi che mi correvano incontro vedendomi da lontano, rallentavo il passo per far finta di cercare qualcosa nelle borse, loro si fermavano e una volta capito che la mia era una minaccia finta riprendevano a seguirmi fino a quando non tiravo fuori un lucchetto abbastanza pensante e facendolo oscillare sopra la testa vedevo che si fermavano nuovamente e così fino a quando non uscivo dal raggio di azione. E' il ritorno alla civiltà, penso, il coltellino intanto è finito in fondo alla tasca. Ripenso a quel ragazzo, pesava 30kg forse, forse un pò di più, oramai sono passati diversi giorni, chissà se il taglio che gli ho fatto è abbastanza profondo da resistere un decennio, chissà se ogni tanto guardando la mano si ricorderà di quello che ha fatto e cosa racconterà ai suoi amici, chissà che cosa resterà di quell'incontro, io di lui però mi ricorderò per sempre.

Ma questo pezzo di terra non può conservare un ricordo legato solamente a lui, ho attraversato un pezzo della Parigi - Dakar, in bici, da sola, in completa e totale autonomia, non sono sopravvissuta alla bravata di un ragazzino, sono sopravvissuta ancora una volta al deserto e questo è quello che alla fine sarà il mio ricordo.


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"In natura un contorno non esiste, dunque la forma disegnata dall'artista non è un elemento realistico, ma una sorta di spettro"

G. De Chirico

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